“Non lo sapevo, ma ho sempre dipinto città cinesi.”
Così mi ha detto Francesco Barbieri quando la sua residenza artistica alla Nanjing University stava volgendo al termine.
Quest’intuizione – una sorta di “epifania” – non ci offre solamente una chiave di lettura delle opere che fanno parte di questa mostra, ma ci aiuta a comprendere l’evoluzione artistica di Barbieri in senso più generale.
Questo “viaggio maieutico,” grazie al quale Barbieri ha scoperto inaspettatamente quel che già era, segna un punto di svolta nella sua carriera: da quel momento, è riuscito a trovare una sintesi più compiuta tra le sue due anime – il writer e il pittore – riconoscendo allo stesso tempo la sua voce più forte ed autentica.
Il percorso che Barbieri ha intrapreso finora segue una traiettoria tanto unica e sincera quanto lo sono le sue opere.
Andando in direzione ostinata e contraria rispetto alla maggioranza di quelli che come lui si trovano all’interno di quel contenitore che è il post-graffitismo, Barbieri ha preferito non trarre vantaggio dalla sua fama come writer, ripartendo da zero con una traiettoria artistica completamente nuova.
Questa non è certo stata una scelta semplice: Barbieri si è dovuto confrontare con molti ostacoli che gli si sono posti davanti nel processo di adattamento alla sua nuova identità artistica, ad un diverso contesto di esposizione, a un cambiamento di medium e tecniche.
Tuttavia, è riuscito a superare brillantemente quelle difficoltà, chiudendo il cerchio di questa parte della sua carriera e raggiungendo una piena maturità come artista.
Attraverso lo studio approfondito della metropoli cinese, Barbieri ha in realtà toccato con mano il mondo che prima aveva solo immaginato nei suoi dipinti: treni che sfrecciano veloci tagliando come lame affilate territori urbani indefiniti e fumosi, dove cavi elettrici che pendono da pali della luce e somigliano a capelli spettrali, uniscono i profili minacciosi di grattacieli spaventosi.
A dire il vero, però, nelle opere che Barbieri ha realizzato dopo il suo ritorno da Nanchino, appaiono per la prima volta anche edifici storici: templi, pagode e torri antiche si affacciano, interrompendo la skyline postindustriale. Siamo al di là della distopia: ci troviamo ora in un mondo più complesso, dove tradizione e modernità sono in dialogo, luce e oscurità coesistono, e la natura non solo appare tra gli interstizi della città spettrale, ma a volte anche la domina.
Camminando per le strade della Cina, Barbieri ha affrontato la sua duplicità: sui muri di Nanchino, Pechino, Shanghai e Wuxi ha visto il suo stesso riflesso, senza però cadere nella trappola di Narciso.
Anziché perdersi nella sua immagine, ha portato indietro nel suo studio il suo alter-ego.
Da questo strano incontro con uno “sconosciuto” che gli era tanto familiare, ha imparato molto di sé e della sua arte.
La sua visione artistica è divenuta più ampia, il suo stile più coraggioso, ed il suo gesto pittorico più fermo e deciso.
Viaggiando attraverso una cultura aliena ed attraverso le molte voci interiori, Barbieri ha trovato quella nota fondamentale che è in grado di armonizzare tutte quelle melodie complesse e polifoniche, che risuonano contemporaneamente all’interno della sua personalità individuale.
Adesso, la sua mano può reggere un pennello come se fosse una bomboletta spray e vice versa.
Come una profezia di questa nuova unità appena raggiunta, una calligrafia del suo nome – (弗朗切斯科 – fú lǎng qiè sī kē) e non nello stile dei graffiti – appare in uno dei dipinti in mostra, dal titolo Black Bright Cut.
Da vera creatura anfibia, Barbieri ha scoperto di poter respirare sia sott’acqua che sulla terra ferma.
Concepite così da una creatura di confine, le sue opere sono forme di espressione che si trovano “a metà.”
Grazie alla loro posizione, sono in grado di congiungere domini e sfere differenti: l’arte e la vita, lo studio e la città, la galleria e la strada.
Le opere di Barbieri nascono dal suo dialogo con questi contesti così disparati. Quel dialogo va al di là della dimensione puramente metaforica o contemplativa, ma diventa tangibile, ed in questo senso influenza non solo il significato, ma anche la stessa realizzazione dei suoi quadri.
Barbieri pratica gli spazi urbani che lo circondano, interagendo con gli avventori che, come lui, attraversano quei luoghi. Porta letteralmente con sé nel suo studio parti della città: elementi interstiziali come barattoli di vernice abbandonati fuori da un cantiere, o frammenti di un cartellone strappato, oppure componenti più nobili come carte dalla grana pregiata o persino opere d’arte, e tutti questi elementi entrano a far parte della sua produzione.
Piuttosto che rappresentare accuratamente località precise – che sono sempre immaginate e decostruite nelle sue opere – i dipinti di Barbieri sono un simbolo e un’incarnazione della condizione post-industriale in cui viviamo.
In questo senso, non stiamo guardando semplici paesaggi visti da un qualche punto lontano: stiamo consultando mappe, topografie del nostro mondo intricato.
Questa qualità dell’opera di Barbieri appare chiaramente nella serie delle megalopoli, dove il cielo quasi scompare e ci troviamo come sommersi da queste città, come se qualcuno ci avesse trasportato direttamente su una planimetria.
Quando osserviamo queste mappe, anche noi vediamo il nostro riflesso: il riflesso di chi vive in un tempo di crisi, dove non è possibile trovare un percorso facile attraverso la città.
Nel materialismo topografico di Barbieri, troviamo l’incarnazione di quell’ineluttabile caos, ma anche un mezzo, seppur fallibile ed imperfetto, per orientarci in quel groviglio tortuoso di incroci che è la nostra vita quotidiana.
Andrea Baldini